Se la questione non è come fare la rivoluzione, essa si trasforma nel come evitarla.
Ci sono pochi dubbi sul fatto che stiamo vivendo tempi spaventosi, periodi durante i quali è più facile per quelli che possono semplicemente seppellire le proprie teste nella sabbia e andare avanti come se tutto fosse in regola. Il degrado ambientale, la disintegrazione sociale, la povertà crescente in ogni porzione di vita – l’intera gamma di conseguenze di un ordine sociale che è mostruosamente sbilanciato – possono facilmente portare quelli che ci ragionano a ritenere che un qualche tipo di fine sia all’orizzonte. Non è, infatti, per nulla sorprendente che delle prospettive apocalittiche siano tornate in auge in diversi settori e di certo non più limitate ai fanatici religiosi. Una delle versioni di questa ideologia apocalittica è quella che prevede il collasso della civilizzazione entro alcuni decenni, causato da un collasso ecologico, sociale e/o economico. E’ questa particolare forma di pensiero apocalittico che voglio affrontare adesso, perché è questa forma che spesso si incontra nei circoli anarchici.
Quelli che adottano una qualsiasi visione apocalittica possono vedere una fine imminente sia con speranza che disperazione, e questo vale anche per l’ideologia del collasso. Alcuni anarco-primitivisti che aderiscono a questa posizione guardano al collasso come grande opportunità per reinventare nuovi modi primitivi di vita libera dalle istituzioni della civilizzazione. Alcuni sembrano anche provare godimento per la sofferenza e la morte che inevitabilmente accompagnerebbero un tale collasso, dimenticando apparentemente che questa sofferenza e morte non farebbero distinzioni tra dominatori e dominati, tra addomesticati e selvaggi, tra civilizzati e “primitivi”. Inoltre, sembrano ignorare il fatto che quelli che hanno avuto il controllo del potere e delle risorse fino ad ora certamente continuerebbero a cercare di mantenerlo anche se il mondo gli collassasse attorno, ricorrendo molto probabilmente allo stesso tipo di tecniche come quelle usate dai signori della guerra in Somalia o in Afghanistan.
Alcuni ambientalisti radicali sembrano avere una qualche concezione realistica di ciò che significherebbe il collasso. Comprendendo che il collasso della civilizzazione a quel punto si riproporrebbe in larga misura attraverso un grande squilibrio ecologico che coinvolgerebbe una devastazione su larga scala del tessuto vitale sulla terra, la visione apocalittica tende a condurli verso la disperazione, e dunque all’azione disperata. Il tentativo di preservare il tessuto vitale mentre la civilizzazione sprofonda diventa il motivo primario della loro attività. Esso va preservato in ogni modo – anche a costo dei nostri principi e dei nostri sogni…
Ma il problema con questo pensiero apocalittico è che si tratta sempre di un atto di fede. Esso presuppone l’inevitabilità di una fine imminente, e prende le sue decisioni sulla base di questa credenza. Facendo previsioni sul futuro invece di considerare come base per l’azione la realtà presente che si affronta e i propri desideri su come si vuole vivere, questo pensiero conferisce alla lotta contro questo mondo una base ideologica. Ovviamente, una base di questo tipo ha un vantaggio, essa rende più facile prendere decisioni riguardanti il come svolgere la propria lotta, perché questa limitazione ideologica delle possibilità fondamentalmente ha già preso queste decisioni al posto nostro. Ma ciò merita un altro approfondimento.
Riponendo la propria fede in un futuro inevitabile, che sia positivo o negativo, ciò rende davvero semplice una qualche accettazione del presente. Nel pensiero di Marx l’inevitabilità del comunismo lo ha condotto a giustificare l’industrialismo e lo sfruttamento capitalista come stadi necessari del percorso verso questa fine, l’ideologia del collasso inevitabile arriva a giustificare da una parte una pratica difensiva in risposta alle devestazioni causate dall’ordine dominante, e dall’altra una pratica d’evasione che ignora largamente la realtà che affrontiamo attualmente.
La pratica difensiva che si sviluppa da questa prospettiva scaturisce dalla comprensione che se la traiettoria della civilizzazione industriale viene lasciata indisturbata il suo collasso potrebbe probabilmente condurre ad una tale devastazione ambientale che la vita stessa sarebbe minacciata. Quindi il tipo d’azione che va perseguito è quello che protegge i pochi rimasti posti selvaggi e le genti non civilizzate che attualmente esistono e limita i danni che l’operato dei sistemi tecnologici industriali/post-industriali può causare al fine di diminuire la devastazione del collasso. Una tale logica di difesa spinge in direzione di una pratica riformista che comporta l’azione legale, la negoziazione con i padroni di questo mondo, proposte di legge e accettazione della presenza sui mass media per fare appello alle masse. Questa tendenza la si può vedere sia nel movimento ambientalista radicale che in quelli indigenisti. Ovviamente, la natura difensiva delle lotte delle popolazioni indigene è piuttosto comprensibile, considerando che in quanto culture, essi affrontano davvero la loro fine. Ciò nonostante, la tendenza della lotta difensiva a cadere nel riformismo è piuttosto chiaramente dimostrata dalle lotte indigene che cosi spesso ricadono nella richiesta di diritti, riconoscimento ufficiali, proprietà (in forma di diritti sulle terre) e cosi via. E per gli anarchici che dicono di voler una rottura rivoluzionaria con il presente, il supporto acritico di queste lotte è esso stesso un compromesso, un accogliere ciò che è meramente l’ultima, e più modaiola versione di terzomondismo.
La tendenza d’evasione vede nel previsto collasso la liberazione dalla civilizzazione. Dato che questo collasso si suppone essere inevitabile, non c’è la necessità di intraprendere un’azione specifica contro le istituzioni del dominio e dello sfruttamento che formano questa civilizzazione; non c’è la necessità di sforzarsi per una rottura con il mondo odierno, per l’insurrezione e la rivoluzione. Piuttosto si può semplicemente andar fuori nella natura selvaggia e adoperarsi per lo sviluppo di abilità “pimitive” al fine di prepararsi per l’imminente collasso e lasciare che il resto si prenda cura di se stesso. Ovviamente, io supporto le persone che imparano ogni tipo di abilità che può accrescere l’autodeterminazione e l’autodivertimento. Il problema di questa prospettiva non sta nello scegliere di imparare delle abilità, ma nell’abbandonare una pratica mirata alla distruzione rivoluzionaria dell’odine sociale attuale basandosi sulla fede nel suo inevitabile collasso.
Come ho giò detto: l’apocalisse è una questione di fede, non un fatto dimostrato; il collasso della civilizzazione è solamente una previsione, una possibilità tra molte, non una certezza. Ciò che stiamo affrontando adesso è una serie di disastri che impoveriscono e devastano le nostre vite e la terra. Presupporre l’inevitabilità del collasso è una facile via d’uscita. Essa permette di non affrontare la realtà presente, di non porsi in conflitto con l’esistenza che stiamo vivendo qui e ora. Se si vede la civilizzazione come nemico, come fonte di tutti i nostri problemi, assumendone l’inevitabile collasso nel prossimo futuro, ci si solleva da ogni responsabilità nell’attaccarla e nel tentare di creare una rottura rivoluzionaria che conduca alla sua distruzione mentre apre a nuove possibilità di vita – una responsabilità che richiederebbe a ciascuno di affinare la propria critica per sapere dove, quando, perché e come attaccarla praticamente.
Credere in un inevitabile collasso non solo legittima un riformismo difensivo e un’evasione per la sopravvivenza, anzi li rende la pratica più logica. Ma visto che il collasso non è una realtà presente, ma una semplice previsione – vale a dire nulla, o al massimo nulla di più di un pensiero nella testa di alcune persone –, allora dobbiamo chiederci se vogliamo basare la nostra pratica su questo nulla, se vogliamo scommettere le nostre vite su di esso.
Se riconosciamo la storia come l’attività delle persone nel mondo, piuttosto che come l’uso del passato o del futuro per giustificare il presente, allora diventa chiaro che ogni rottura con il presente, ogni nuovo inizio, trasforma tutto il tempo. Infatti la nostra lotta prende forma adesso, ed è una lotta contro il presente. Essa è, infatti, una partita nella quale poniamo le nostre vite sul limite, scommettendo noi stessi, e ciò è l’essenza della responsabilità rivoluzionaria – avere responsabilità per la propria vita qui e ora in aperto conflitto con questa società. In questa prospettiva, un potenziale collasso economico, sociale o ecologico è parte della sfida che affrontiamo, parte di ciò contro cui stiamo scommettendo noi stessi. Ma visto che stiamo scommettendo le nostre vite, noi stessi, il modo che scegliamo per affrontare la vita – i nostri desideri, le nostre passioni, i nostri principi, la nostra etica personale, tutto ciò che ci rende unici – non può semplicemente essere messo da parte per “salvare il mondo” da un previsto collasso. Precisamente la scommessa è che capovolgeremo questo ordine sociale che può condurre al collasso vivendo e combattendo contro di esso alle nostre condizioni, rifiutando il compromesso. Nel momento in cui ricorriamo alla petizione, alla negoziazione, all’azione legale, alla legge o anche alla mediazione (ad esempio, accettando l’apparire sui mass media), abbiamo già perso la scommessa, perché abbiamo finito di agire alle nostre condizioni, abbiamo acconsentito che valore “più alto”, una valorizzazione morale dell’Umanità, della Vita o della Terra, abbia la precedenza rispetto alle nostre vite, alla nostra umanità che risiede proprio nella nostra individualità. E’ soprattutto questo moralismo, basato su un’ideologia della disperazione che ci conduce a sacrificare noi stessi, i nostri sogni e i nostri principi, e quindi ci trasforma da insorti e rivoluzionari in riformisti, elettori, firmatari di petizioni, avvocati di cause civili… patetici mendicanti.
Parlando di responsabilità rivoluzionaria, sto parlando soprattutto di questa volontà di posizionarsi sul limite, di scommettere la propria vita sulla possibilità di creare una rottura rivoluzionaria. Questa prospettiva è in assoluto contrasto ad ogni forma di fede apocalittica tra cui l’ideologia del collasso. Ciò significa che la nostra pratica di rivolta inizia dai nostri sogni del mondo che desideriamo e dalla nostra comprensione di come il mondo attuale si rapporta con noi, una comprensione che affiniamo tramite l’analisi e la critica al fine di attaccare meglio questo mondo. Perché se iniziamo in questo modo, da noi stessi e dai nostri desideri più rivoluzionari, vedremo il bisogno di allungare la mano, afferrare ogni arma che possiamo davvero rendere nostra e andare all’attacco contro questa civilizzazione basata sul dominio e sullo sfruttamento. Perché non c’è certezza che questo mostro collassi da solo. Perché anche se accadesse, nel frattempo noi vivremmo una vita mediocre e misera. Perché solo imparando a creare attivamente le nostre vite per noi stessi, sviluppando modi di vita che siano assolutamente diversi da quelli sperimentati fino ad ora – qualcosa che può solo essere imparato nella rivolta – saremo capaci di garantire che la fine di questa civilizzazione non conduca ad orrori ben più tremendi. Perché questo significa avere responsabilità per la propria vita qui e ora, questo è il significato di responsabilità rivoluzionaria.
Willful Disobedience Vol. 4
Alcune considerazioni…
Il 26 gennaio scorso, in varie città italiane, avveniva quello che da un po’ di tempo si era intuito che fosse accaduto.
A partire dalle primissime ore del mattino i cani da guardia del potere (digos, polizia e carabinieri) facevano irruzione nelle case di molti compagni e altrettante persone che portano avanti la lotta sul posto alla T.A.V.(treni ad alta velocità).
Si! Si sapeva che prima o poi sarebbe arrivata quest’ennesima ondata repressiva!
Per quanto discutibile come forma di lotta e affianco di chi viene fatta non è il caso ora e tantomeno il momento per fare critiche, e visto che a breve si profila un ennesima stagione di processi e tribunali non penso sia il caso di crearne altri(spesso arrivano prima le sentenze di movimento che quelle giudiziarie).
Ognuno singolarmente ha deciso se partecipare o meno a quella lotta addossandosi la completa responsabilità.
La cosa più preoccupante non è tanto l’inchiesta, l’ennesima, giudiziaria portata dai vari inquisitori ma la risposta!
Incancreniti nel corpo e nelle idee ad ogni colpo si risponde con il piangersi addosso, assemblee, volantini e il tentare di riorganizzare “unità” che mettono più brividi delle inchieste stesse.
Non c’è fiacchezza nelle risposte perché non esistono le risposte stesse; almeno quelle di movimento mentre
quelle individuali fortunatamente arrivano spesso.
Si parla di distruzione delle carceri ed i primi carcerieri delle nostre idee siamo noi stessi.
Ci sono tante cose che hanno sempre bloccato la crescita del “movimento” anarchico da quando si è stabilizzata una certa “pace sociale”.
Una su tutte la capacità, o la paura, di autocritica; la seconda è la coordinazione tra “pensiero e azione” che dovrebbe essere spontaneo e non “coerente”; la coerenza è un cancello, un paletto…un ostacolo.
Pensare di essere coerente con le proprie idee è la prima forma di “carcere” che creiamo in noi stessi;
chi crede seriamente nelle proprie idee si comporta di conseguenza senza sentire il peso della coerenza.
Le carceri costruite intorno alle nostre idee devono essere le prime ad essere abbattute se si vogliono abbattere quelle di cemento armato, sbarre e vegliate da cani da guardia in divisa.
La “paura” è un sentimento naturale e non deve essere visto come segno di debolezza sia da parte di chi se la vive sia da parte di chi “paura” ne ha di meno.
Il dimostrare di essere “puri e duri” serve a nulla se non a incupirsi ed auto-reprimersi, quindi a fanculo quell’ anarchismo cupo da “morte nel cuore”.
Sentir parlare, e leggere, gli anarchici, oggi, con frasi dell’800 mi fa venire i brividi; pensare di applicare tesi e concetti, concepiti un secolo fa, serve solamente a far crescere le ragnatele intorno al cervello.
“Il culto dei morti ha, sin dagli albori, frenato l’evoluzione degli uomini. Esso è il “peccato originale”, il peso morto, la palla che l’umanità trascina con sé”(A. Libertad).
Come ricordavano alcuni compagni in un documento, il movimento anarchico non è, e non deve essere, un movimento che da spettacolo tantomeno terreno fertile in cui immaginari filosofi dell’insurrezione si fanno spazio con la buona dialettica.
“Pensiero e azione”: questo deve essere l’anarchismo, queste devono essere le risposte!
La solidarietà deve essere un’arma e non solamente un semplice termine scritto.
Quella alla T.A.V. è una lotta che appartiene a tutti, come appartengono a tutti tutte le lotte contro le nocività.
A tutti si, ma non ai politici che di destra o sinistra hanno sempre dato pieno appoggio ai loro partiti che, di destra o di sinistra, hanno formato i vari governi di destra e di sinistra, e non hanno mai pensato solo per un minuto di bloccare il progetto T.A.V.
Le modalità su come portare avanti le singole lotte le decide il singolo individuo, ma bisogna tenere ben presente che
le lotte stesse non si fanno con l’inchiostro e fiumi di parole; l’insurrezione non è una teoria dettata da professorini
o filosofi e l’anarchismo non è una fede in cui si ha bisogno di chiese, inginocchiatoi e crocefissi.
I “calamai” non ci sono più, le “penne” non si usano quasi per niente, di “parole” se ne sono fin troppo sprecate ed i “pugnali” raramente avranno la meglio sulle pistole.
La libertà non è mai stata regalata a nessuno; non è mai stato un pensiero, ma il sentimento più alto a cui un individuo dovrebbe aspirare…ed ottenere in qualsiasi modo con qualsiasi mezzo che si ritiene necessario contro chi, da sempre, ci ha messo un guinzaglio al collo e le catene a mani e piedi.
Ricordando Sole e Edo
SOLIDARIETA’ A TUTTI GLI ARRESTATI
COMPLICITA’ CON I COMPAGNI ANARCHICI!
Individualità anarchica napoletana