Intorno alla violenza e alla vita

Nelle mani dello Stato la forza si chiama diritto, nelle mani dell’individuo si chiama delitto.
                                                                                                                               Max Stirner

Il dibattito sulla violenza, sulle sue origini e sul suo uso va avanti da tempo immemore. Ciclicamente tornano alla ribalta le tavole rotonde sull’esercizio della violenza, sul suo monopolio o sulle dosi che di essa andrebbero dispensate. Come sottolinea anche il compagno Pierleone Mario Porcu nel suo scritto “Intorno alla violenza e alla vita”, c’è una dimensione della violenza, forse quella che dovrebbe essere più evidente, che è prettamente quotidiana, alla quale gran parte degli esseri umani è sottoposta, in maniera consapevole o no. E’ innegabile riconoscere che la violenza, nella sua versione legalizzata e oggi democraticamente riconosciuta, è una delle armi di cui è composto l’arsenale a disposizione del dominio, che sia essa fisica o psicologica.
Di certo, parlare di non violenza, resistenza passiva e altri surrogati di rivolta è un’attitudine che non ci riguarda, bensi da essa cerchiamo sempre di prendere le dovute distanze. La rivolta contiene integralmente la violenza e il suo unico limite, ad oggi, è nell’esercitarla solo in occasioni sporadiche, tralasciandone invece l’utilizzo sistematico nei confronti di ciò che ci depriva della nostra autonomia. Siamo d’accordo con l’autore del testo quando questi cita il fondamento religioso, considerandolo uno dei fattori che ha espropriato la violenza a svantaggio di tanti esseri umani, riducendo essi ad uno stato di impotenza funzionale al mantenimento dello status quo.
Ed è proprio questo il risultato voluto anche dai fautori della resistenza non violenta, ovvero la delega del proprio sentire mascherata da una protesta consapevole. Solamente allontanandosi dalla trappola della non violenza è possibile superare l’illusoria dicotomia tra difesa e offesa, ritornando in possesso della propria capacità e portata offensiva da far detonare a danno delle sentinelle dell’autorità.

Oggi sentiamo anche il bisogno di fare delle distinzioni, di combattere dei luoghi comuni che, col passare del tempo, si sono trasformati in solidi assiomi riconosciuti anche da chi dichiara di portare nel cuore un altro tipo di vita, quantomeno antiautoritaria. L’adozione di categorie come oppressi, sfruttati, emarginati, e varie altre etichette di stampo socioeconomico, ha sviato l’attenzione da una differenza che crediamo sia necessario fare: una netta frattura tra chi, docilmente, tiene una condotta mansueta e remissiva nei confronti del potere e chi, anche con contraddizioni e limiti in via di superamento, non si riconosce sconfitto e decide di passare al contrattacco, nelle forme che più ritiene opportune di volta in volta, non delegando a nessuno la riconquista dell’autonomia perduta.
Solo una distinzione di questo tipo può rendere comprensibile il disprezzo per le classi e le categorie (macro o micro che siano) sociali, lungi dal voler cadere in manicheismi o giudizi superficiali, ma intenzionati a riconoscere, e percepire dunque come nemico, anche chi assolve alla funzione di stampella dell’ordine dominante. Al contrario, riappropriarsi della violenza significa tornare in possesso di una tessera del proprio mosaico individuale, contribuendo in prima persona al suo completamento. E’ nostra convinzione, infatti, che solo prendendo parte al conflitto col dominio è possibile poter essere padroni di se stessi, grazie allo sforzo per una liberazione innanzitutto individuale. Perché si possa fare una genuina discussione sulla violenza è necessario che ciascuno ritorni prima padrone della propria, per poi essere capace di gestirla nel modo ritenuto più opportuno.
E sul piano dell’attacco, riteniamo che l’unione più proficua tra individui sia quella tra chi è ritornato in possesso della propria capacità offensiva, tra chi, anche in modo egoista, mira allo sviluppo primario della propria individualità. Perché associarsi tra singoli, con il fine dell’attacco, è l’unica forma che riteniamo valida al fine di conservare le proprie peculiarità individuali, seppur mossi da uno o più fini condivisi.
Chiudiamo questa breve introduzione, che di certo ha tratto ispirazione dallo scritto in questione, con la conclusione dello scritto stesso :

Per concludere: chi vuole agire, agisce, non si riconosce vinto.

Impugna le armi, insorge, non mendica la pietà dei vincitori. Credete

che a dividerlo dai non violenti sia la semplice questione

dell’efficacia del suo metodo rispetto all’altro? No! C’è una ragione

più profonda, diversa dal semplice risultato ottenuto, quella che

si basa su di una questione di dignità. E’ la dignità che fa sempre

la differenza qualitativa fra gli uomini.

Un uomo così, cadendo, può dire in tutta coscienza: io ci ho

provato. E voi?

ParoleArmate

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