Lo Stato migliore sarà evidentemente quello che ha i cittadini più ligi e quanto più il rispetto per la legalità va perduto, tanto più lo Stato, questo sistema dell’eticità, questa vita etica stessa, ne risulta diminuito nella sua forza e nel suo valore. Insieme ai “bravi cittadini” perisce anche lo Stato buono, dissolvendosi in anarchia e illegalità. “Attenzione alla legge!”. Da questo cemento viene tenuta insieme la compagine statale. “La legge è sacra e chi la viola è un delinquente”. Ma senza delitti non c’è Stato: il mondo etico (e tale è lo Stato) pullula di furfanti, d’imbroglioni, di fraudolenti, di ladri, ecc. Siccome lo Stato è il “dominio della legge”, la sua gerarchia, l’egoista, in tutti i casi in cui il suo vantaggio è contrario a quello dello Stato, potrà soddisfarsi solo prendendo la via del delitto.
Lo Stato non può rinunciare alla pretesa di far valere come sacri i suoi ordinamenti e le sue leggi. Il singolo, di conseguenza, è considerato come qualcosa di non sacro (barbaro, uomo naturale, “egoista”) di fronte allo Stato, così come un tempo veniva considerato tale dalla Chiesa; di fronte al singolo lo Stato si mette in testa l’aureola da santo. Così, per esempio, viene promulgata una legge contro i duelli. Due uomini che sono d’accordo nel voler mettere in gioco la loro vita per una causa qualunque non devono poterlo fare, perché lo Stato non vuole e punisce i contravventori. Ma dove va a finire, in questo caso, la libertà di autodeterminarsi? Le cose stanno in modo completamente diverso quando, per esempio nel Nord America, la società decide di far subire ai duellanti alcune conseguenze dannose della loro azione, togliendo loro, per esempio, la stima di cui avevano goduto sino allora. Ognuno può negare la stima a un’altra persona e se una società vuole toglierla per questo o per quel motivo, l’interessato non può lamentarsi come se la sua libertà fosse stata violata: la società fa solo valere la sua propria libertà. Non si tratta di una pena per una colpa commessa o di una punizione per un delitto. Il duello non è un delitto, in questo caso, ma un’azione contro la quale la società decide di prendere le sue contromisure difensive. Lo Stato, invece, bolla il duello come delitto, cioè come violazione della sua legge sacra, ne fa un caso criminale. Se quella società lascia al singolo la decisione di attirare o no su se stesso conseguenze dannose e fastidi derivanti dal suo comportamento e riconosce così la sua libera scelta, lo Stato fa esattamente il contrario, negando alla decisione del singolo ogni diritto e riconoscendo invece diritto esclusivo alla propria decisione, alla legge statale, cosicché chi infrange il comandamento dello Stato viene giudicato come se avesse violato un comandamento divino; la Chiesa l’ha sempre pensata allo stesso modo. Dio è allora il santo in sé e per sé e i comandamenti della Chiesa o dello Stato sono comandamenti di questo santo, da lui trasmessi al mondo per mezzo dei suoi ministri e di prìncipi per diritto divino. La Chiesa aveva peccati mortali, lo Stato delitti capitali, la prima gli eretici, il secondo i rei d’alto tradimento, la prima pene ecclesiastiche, il secondo pene criminali, la prima i processi dell’Inquisizione, il secondo i processi fiscali, insomma: là peccati, qua delitti, là peccatori, qua delinquenti, là l’Inquisizione e qua – l’inquisizione! Forse che la sacralità dello Stato non finirà come quella della Chiesa? Resteranno ancora il brivido religioso di fronte alle sue leggi, la venerazione della sua sovranità, l’umiltà dei suoi “sudditi”? Il “volto del santo” non verrà mai deturpato?
Che stoltezza pretendere dallo Stato che s’impegni in una lotta leale contro il singolo e divida equamente, come si dice a proposito della libertà di stampa, sole e vento! Se lo Stato, quest’idea, dev’essere una potenza reale, esso deve avere per l’appunto una potenza superiore a quella del singolo. Lo Stato è “sacro” e non può esporsi agli “attacchi impudenti” dei singoli. Se lo Stato è sacro, dev’esserci la censura. I sostenitori del liberalismo politico affermano la premessa e negano la conseguenza. Ma essi concedono comunque allo Stato il diritto di prendere misure repressive, perché persistono nella loro opinione secondo cui lo Stato sarebbe da più del singolo ed eserciterebbe una vendetta legittima, chiamata pena.
Una pena ha senso solo se deve valere da espiazione per la violazione di qualcosa di sacro. Se uno considera sacra una cosa, merita certamente di venir punito nel caso che la violi. Un uomo che lascia sussistere una vita umana perché gli è sacra e ha timore che venga offesa è appunto un uomo – religioso.
Weitling dà la colpa dei delitti al “disordine sociale” e vive nella fiducia che, con le istituzioni comuniste, i delitti diventeranno impossibili, perché i motivi che inducono a commettere delitti, per esempio il denaro, verranno a mancare. Ma poiché anche la sua società organizzata viene esaltata come sacra e inviolabile, egli sbaglia i suoi calcoli, nonostante le buone intenzioni. Non mancherebbero certamente persone che, pur riconoscendosi a parole nella società comunista, lavorerebbero poi di nascosto alla sua rovina. Weitling deve perciò concedere che ci saranno “rimedi salutari contro i residui naturali delle malattie e delle debolezze umane” e i “rimedi salutari” fanno già capire che si continuerebbe a considerare i singoli come chiamati per “vocazione” a una certa “salute” e li si tratterebbe di conseguenza misurando il loro operato alla stregua di questa “vocazione umana”. I mezzi salutari o il risanamento non sono che il rovescio della medaglia della pena; la teoria della salute corre parallela alla teoria della pena: se questa vede in un’azione un’offesa al diritto, quella la considera un’offesa dell’uomo contro se stesso, una caduta dallo stato di salute morale. E invece ho ragione io a giudicare quell’azione considerando solo se essa è o non è la cosa giusta per me e se è ostile o amichevole nei miei confronti: io la tratto, insomma, come mia proprietà, che curo o distruggo a piacimento. Il “delitto” e la “malattia” non sono né l’uno né l’altra una visione egoistica della cosa, cioè valutazioni che partono da me, ma invece valutazioni altrui, a seconda che vengano pregiudicati il diritto (generale) oppure la salute, sia del singolo (il malato), sia dell’entità generale (la società). Il “delitto” viene trattato senza pietà, la “malattia” con “amorevole tenerezza, compassione, ecc.”.
Al delitto segue la pena. Se il delitto non sussiste più, perché il sacro scompare, anche la pena se ne andrà con quello, giacché essa ha senso solo finché sussiste un qualcosa di sacro. Le punizioni della Chiesa sono state abolite. Perché? Perché il comportamento verso Dio, il “Santissimo”, è una faccenda personale di ciascuno. Ma come questa punizione, la punizione della Chiesa, è decaduta, così è inevitabile che decadano tutte le punizioni. Come il peccato contro il cosiddetto Dio è una faccenda personale, così lo è pure il peccato contro ogni specie del cosiddetto sacro. Le nostre teorie penali, che si tenta invano, con grandi sforzi, di “migliorare tenendo conto delle esigenze dei tempi”, vogliono punire gli uomini per questa o quella “azione inumana”, ma quel che viene alla luce è piuttosto l’assurdità di quelle teorie perché, seguendole fino in fondo, vengono impiccati i ladri piccoli, mentre i grossi vengono lasciati circolare in libertà. Per la violazione della proprietà c’è il carcere e per la “coercizione del pensiero”, per la soppressione dei “diritti naturali dell’uomo”, invece, soltanto – rimostranze e petizioni.
Il codice penale sussiste solo in virtù del sacro e deperisce da sé dal momento in cui si abbandona la pena. Oggi si cerca dappertutto di stabilire nuove leggi penali, ma senza riflettere affatto sul concetto stesso di pena. Eppure proprio la pena deve lasciare il posto alla soddisfazione, che a sua volta non deve mirare a render soddisfazione al diritto o alla giustizia, ma ad appagare noi stessi. Se qualcuno ci fa qualcosa che non vogliamo subire, noi spezzeremo la sua violenza e faremo valere la nostra: contro di lui noi diamo soddisfazione a noi stessi e non cadiamo nell’errore folle di voler render soddisfazione al diritto (allo spettro). Non il sacro deve difendersi dall’uomo, ma l’uomo dall’uomo, così come anche Dio non si difende più dall’uomo, come accadeva invece un tempo (e talvolta ancora oggi), quando tutti i “servitori di Dio” gli davano man forte per punire il blasfemo, allo stesso modo per l’appunto in cui essi ancora oggi mettono le loro mani al servizio del sacro. Questa dedizione al sacro ha anche la conseguenza che la gente, senza alcuna partecipazione personale, viva, si limita a consegnare i malfattori nelle mani della polizia e dei tribunali: è un rimettersi indifferente all’autorità che “saprà certo amministrare il sacro nel migliore dei modi”. Il popolo smania dalla voglia di aizzare la polizia contro tutto ciò che gli sembra immorale (e spesso anche solo sconveniente) e questo zelo rabbioso del popolo per la moralità protegge l’istituto della polizia meglio di come il governo potrebbe mai fare.
L’egoista si è affermato finora col delitto e ha deriso il sacro: la rottura col sacro (o, piuttosto, del sacro) può generalizzarsi. Una rivoluzione non ritorna, ma un – delitto violento, spietato, svergognato, incosciente, fiero già romba in tuoni lontani: non vedi come il cielo si oscura in un silenzio pieno di presagi?
Chi si rifiuta d’impegnare le sue forze per società così limitate come la famiglia, il partito o la nazione continua tuttavia a bramare una società più degna e pensa di aver trovato il vero oggetto del suo amore nella “società umana”, per esempio, o nell’ “umanità”: sacrificarsi per esse sarà il suo onore; di qui in avanti “vivrà solo per servire l’umanità”.
“Popolo” è il nome del corpo, “Stato” il nome dello spirito di questa persona dominatrice che finora mi ha oppresso. Si è voluto trasfigurare popoli e Stati, nobilitandoli coi nomi più generali di “umanità” e di “ragione universale”, ma proprio questa amplificazione renderebbe la schiavitù ancora più pesante: i filantropi e gli umanitari sono padroni assoluti esattamente come i politici e i diplomatici.
Sotto la religione e la politica l’uomo si trova a guardare tutto dal punto di vista del dovere: egli deve essere questo o quello, deve diventare questo o quello. Con questo postulato, questo comandamento, ognuno si presenta non solo agli altri ma anche a se stesso. Quei critici dicono: tu devi essere un uomo integrale, un uomo libero. Così anch’essi cadono nella tentazione di proclamare una nuova religione, di stabilire un nuovo assoluto, un ideale: la libertà. Gli uomini devono diventare liberi. Così potrebbero sorgere perfino missionari della libertà, così come il cristianesimo, convinto che tutti fossero chiamati a diventare cristiani, inviò dovunque i missionari della fede. La libertà si costituirebbe allora come una nuova comunità (come già la fede si costituì in comunità come Chiesa, e la moralità come Stato) ed eserciterebbe anch’essa la sua “propaganda”. Non si può certo obiettare nulla contro il fatto che gli uomini si riuniscano in gruppi, ma tanto più bisogna opporsi al rinnovarsi della vecchia cura ed educazione degli altri, insomma al principio che si debba fare qualcosa di noi: cristiani o sudditi o uomini liberi.
Le aspirazioni dell’età moderna mirano a costruire l’ideale dell’ “uomo libero”. Se lo si potesse trovare, ci sarebbe una nuova – religione, fondata appunto su quel nuovo ideale, ci sarebbero nuovi aneliti, nuovi tormenti, un nuovo culto, una nuova divinità, una nuova contrizione.
È ridicolo che qualcuno la cui stirpe, famiglia o nazione conta uomini valorosi metta su boria per i meriti di quelli, ma altrettanto folle è chi vuol essere soltanto “uomo”. Né l’uno né l’altro pone il proprio valore nell’essere esclusivo, ma invece nell’essere legato, ossia nel “vincolo” che lo lega ad altri, nei vincoli di sangue, nei vincoli nazionali, nei vincoli umani.
Gli attuali “nazionalisti” fanno rivivere la contesa fra coloro che pensano di avere semplicemente sangue umano e vincoli di sangue pure umani e coloro che invece si vantano del loro sangue speciale e dei loro speciali vincoli di sangue.
Prescindendo dal fatto che l’orgoglio può esprimere una sopravvalutazione, e prendendolo invece per vera coscienza, resta una distanza enorme fra l’orgoglio di “appartenere” a una nazione, cioè di essere sua proprietà, e quello di considerare la nazionalità come proprietà nostra. La nazionalità è una delle mie proprietà, la nazione, invece, è mia signora e padrona. Se tu possiedi una forza fisica particolare, potrai usarla al momento opportuno e andarne fiero, compiacertene; ma se sei schiavo del tuo corpo forte, esso non ti farà stare nella pelle per la voglia di mostrare sempre, e magari nei momenti meno opportuni, la tua energia e non saprai stringere la mano a nessuno senza quasi stritolargliela.
La consapevolezza di essere più che soltanto membro di una famiglia, rampollo di una stirpe, individuo di una nazione, ecc., ha condotto, alla fine, a questa affermazione: l’uomo è più che l’ebreo, il tedesco, ecc. “Perciò ognuno sia interamente e solamente – uomo!”. Non si poteva dire piuttosto: poiché noi siamo più di quel che è stato detto (cioè più che semplicemente “uomini”), così vogliamo essere questo e quel “più”: uomo e tedesco, uomo e guelfo, ecc.? I nazionalisti hanno ragione: non si può rinnegare la propria nazionalità, e gli umanitari hanno ragione: non si deve restare nella limitatezza del nazionalismo. Nell’unicità si scioglie la contraddizione: la nazionalità è una mia proprietà, ma io non mi risolvo nella mia proprietà, così come anche l’umanità è una mia proprietà, ma “l’uomo” vive solo perché io lo faccio esistere grazie alla mia unicità.
La storia va in cerca dell’uomo, ma egli è me, è te, è noi. Cercato come un essere misterioso, come il divino, prima come il Dio, poi come l’uomo (l’umanità, il genere umano, il carattere umano), egli viene trovato come il singolo, il finito, l’unico.
Io sono possessore dell’umanità, sono l’umanità e non faccio niente per il bene di un’altra umanità. Tu che sei un’umanità unica sei davvero stolto a vantarti di voler vivere per un’umanità altra da quella che tu stesso sei.
A seconda del modo in cui il concetto dell’uomo è stato sviluppato e rappresentato, esso ci è stato offerto nella figura di questa o di quella persona di riguardo da rispettare e l’estensione massima di questo concetto ha portato alla fine a questo comandamento: “Rispetta in ciascuno l’uomo”. Ma se rispetto l’uomo, il mio rispetto deve estendersi anche all’umano, cioè a ciò che è proprio dell’uomo.
Gli uomini posseggono qualcosa di proprio, e io debbo riconoscere e considerare sano questo qualcosa di proprio. La loro proprietà è costituita in parte da averi esteriori, in parte da averi interiori. I primi sono cose, i secondi qualità spirituali, pensieri, convinzioni, sentimenti nobili, ecc. Ma io devo rispettare sempre soltanto gli averi legittimi o umani; agl’illegittimi e agl’inumani non devo portar rispetto, perché la vera proprietà degli uomini è solo quella che è propria dell’uomo. Un avere interiore di questo tipo è, per esempio, la religione; siccome la religione è libera, cioè è dell’uomo, io non posso intaccarla. Altro avere interiore è l’onore; esso è libero e non può venir intaccato da me (querele per oltraggio, caricature, ecc.). La religione e l’onore costituiscono una “proprietà spirituale”. Fra le proprietà delle cose la principale è quella della persona: la mia persona è la mia prima proprietà. Quindi libertà della persona; ma solo la persona giusta, ovvero umana, è libera, l’altra viene rinchiusa in carcere. La tua vita è tua proprietà, ma è sacra agli uomini solo se non è la vita di un mostro inumano.
I beni materiali che l’uomo come tale non sa conservarsi, possiamo prenderglieli: questo è il senso della concorrenza, della libertà di commercio. I beni spirituali che egli non sa conservarsi diventano ugualmente nostra proprietà: ecco la libera discussione, la scienza e la critica libere.
Ma i beni santificati sono intangibili. Santificati e garantiti da chi? Innanzitutto dallo Stato, dalla società, ma in realtà dall’uomo o dal “concetto”, dal “concetto della cosa”: infatti il concetto dei beni santificati implica che essi siano veramente umani, ossia, per dir meglio, che il loro proprietario li possieda in quanto uomo e non in quanto mostro inumano.
In campo spirituale sono beni santificati la fede dell’uomo, il suo onore, il suo senso morale, cioè il suo senso della decenza, del pudore, ecc. Gli atti che offendono l’onore (discorsi, scritti) sono punibili e così pure gli attacchi al “fondamento di ogni religione”, gli attacchi alla fede politica, insomma gli attacchi a tutto ciò che un uomo possiede “a buon diritto”.
L’uomo singolo accampi pure pretese su tutti i diritti che vuole, considerandosi “legittimato” dall’uomo, ossia dal concetto di “uomo”, cioè dal suo esser uomo: che importano a me i suoi diritti e le sue pretese? Se il suo diritto gli viene solo dall’uomo e non da me, per me egli non ha alcun diritto. Io riconosco un valore alla sua vita, per esempio, solo nella misura in cui essa ha un valore per me. Io non rispetto né il suo cosiddetto diritto di proprietà, cioè il suo diritto a possedere beni materiali, né il suo diritto a un “santuario interiore”, cioè il suo diritto a veder rispettati, da parte degli altri, i suoi beni spirituali, le sue divinità e i suoi dèi. I suoi beni, materiali come spirituali, sono miei e io ne dispongo da padrone secondo il grado del mio – potere.
La questione della proprietà cela in sé un senso più ampio, che gli aspetti trattati fin qui non hanno permesso di mettere in luce. Finché ci si limita a considerare ciò che vien chiamato “il nostro avere”, quella questione non può essere risolta; la decisione risolutiva si trova solo in colui “dal quale ci deriva ogni cosa”: la proprietà dipende dall’individuo proprietario.
La rivoluzione dichiarò guerra a tutto ciò che proveniva “dalla grazia di Dio”, per esempio al diritto divino, al cui posto venne installato il diritto umano. A ciò che viene concesso dalla grazia di Dio si contrappone ciò che deriva “dall’essenza dell’uomo”.
Come i rapporti degli uomini fra di loro dovettero ricevere, in opposizione al dogma religioso che comanda “Amatevi l’un l’altro per amore di Dio”, un’impostazione umana col precetto “Amatevi l’un l’altro per amore dell’uomo”, così, per quel che riguarda i rapporti degli uomini con le cose di questo mondo, la dottrina rivoluzionaria non poté far altro che sancire che il mondo, disposto finora secondo l’ordine divino, appartiene d’ora in avanti “all’uomo”.
Il mondo appartiene “all’uomo” e deve venir rispettato, da parte mia, come sua proprietà.
Ma la proprietà è ciò che mi appartiene!
La proprietà in senso borghese significa una proprietà sacra, tale che io debba rispettare la tua proprietà. “Rispettate la proprietà!”. Per questo i politici vorrebbero che ognuno possedesse il suo pezzetto di proprietà e hanno anzi provocato, appunto per realizzare quest’aspirazione, una parcellizzazione davvero incredibile. Ognuno deve avere il suo ossicino da rosicchiare.
Diversamente stanno le cose dal punto di vista egoistico. Io non arretro timoroso di fronte alla tua e alla vostra proprietà, ma la considero sempre come mia proprietà che non sono tenuto a “rispettare”. Comportatevi pure allo stesso modo nei confronti di ciò che chiamate mia proprietà!
Se condividiamo questo modo di vedere, sarà facilissimo intendersi.
La proprietà com’è concepita dai liberali borghesi merita gli attacchi dei comunisti e di Proudhon: è insostenibile, perché il proprietario borghese non è in realtà che un nullatenente, è dovunque un escluso. Il mondo potrebbe appartenergli e invece non possiede neppure il punto meschino sul quale egli si gira.
Proudhon e i comunisti lottano contro l’egoismo. Perciò essi non rappresentano che la continuazione logica del principio cristiano, del principio dell’amore, del sacrificio per un’entità generale ed estranea. Essi portano soltanto a compimento, nella proprietà, ad esempio, ciò che già da tempo è implicito nella natura della cosa, cioè il fatto che il singolo non ha nessuna proprietà. In quanto nemici dell’egoismo, dunque, essi sono – cristiani o, più in generale, uomini religiosi che credono agli spiriti e ne dipendono, schiavi di qualche entità generale come Dio, la società o altro. Proudhon assomiglia ai cristiani anche in questo: anch’egli attribuisce a Dio ciò che nega agli uomini. Egli chiama Dio propriétaire della terra. Nel passo citato Proudhon non definisce Dio “propriétaire”, bensì “producteur”. In questo modo egli dimostra chiaramente di non riuscire a togliersi dalla mente il proprietario in quanto tale; alla fin fine arriva anche lui ad ammettere un proprietario, pur trasferendolo nell’aldilà.
Ma proprietario non è né Dio né l’uomo (la “società umana”), bensì il singolo.
Proudhon (e così pure Weitling) crede d’aver fatto l’offesa peggiore alla proprietà chiamandola “furto”. A prescindere dalla questione assai insidiosa se sia possibile muovere al furto obiezioni fondate, noi chiediamo soltanto: è mai possibile il concetto di “furto” se non accettando quello di “proprietà”? Come si può rubare se non c’è già una proprietà? Ciò che non appartiene a nessuno non può venir rubato: se uno attinge acqua dal mare, non la ruba. Perciò non la proprietà è un furto, ma solo se c’è la proprietà il furto è possibile. Anche Weitling arriva alla conclusione di considerare tutto come proprietà di tutti: se qualcosa è “proprietà di tutti”, è evidente che il singolo che se ne appropria commette un furto.
La proprietà privata vive per grazia del diritto. Solo nel diritto ha la sua garanzia – il possesso, infatti, non è ancora proprietà, ma diventa “ciò che è mio” solo con la sanzione del diritto; non è un fatto, un fait, come Proudhon pensa, ma una finzione, un pensiero. Ecco la proprietà di diritto, la proprietà legale, la proprietà garantita. Non in virtù di me stesso è mia, ma grazie al – diritto.
A proposito della libertà decide solo la forza e siccome lo Stato, sia di cittadini sia di straccioni sia di uomini e basta, è il solo potente, esso è il solo proprietario; io, il singolo, non ho niente: tutt’al più mi viene dato qualcosa in feudo e così divengo vassallo, cioè servo. Sotto il dominio dello Stato non c’è alcuna proprietà mia.
Io che voglio innalzare il valore di me stesso, il valore della propria individualità, dovrei svalutare la proprietà? No davvero! Così come io non sono mai stato rispettato perché il popolo, l’umanità e mille altre entità generali sono state messe al di sopra di me, allo stesso modo anche la proprietà non è stata riconosciuta fino ad oggi nel suo pieno valore. Anche la proprietà era solo proprietà di un fantasma, per esempio proprietà del popolo; tutta la mia vita “apparteneva alla patria”: io appartenevo alla patria, al popolo, allo Stato e così pure, quindi, tutto ciò che chiamavo mio proprio. Si esige dagli Stati che eliminino il pauperismo: a me sembra che questo significa pretendere che lo Stato si tagli la testa e la deponga ai propri piedi; infatti, finché lo Stato è l’io, l’io singolo non può che essere un povero diavolo, un non-io. Lo Stato ha soltanto l’interesse a essere lui stesso; che Pietro sia ricco e Paolo povero, gli è indifferente e, per quel che gli interessa, potrebbe benissimo essere ricco Paolo e povero Pietro. Esso assiste indifferente all’impoverimento dell’uno e all’arricchimento dell’altro e non si cura di questi giochi della fortuna. Come singoli sono tutti davvero uguali al suo cospetto, in questo senso esso è giusto: l’uno e l’altro sono, di fronte a lui, – un niente, così come noi “siamo tutti peccatori di fronte a Dio”; lo Stato ha invece un grosso interesse a far partecipare alle sue ricchezze quei singoli che fanno di esso il proprio io: lo Stato li rende partecipi della sua proprietà. Remunerando con la proprietà quei singoli, lo Stato se li accattiva, ma la proprietà rimane pur sempre sua e uno può averne l’usufrutto solo finché porta in sé l’io dello Stato, ossia è un “membro leale della società”; in caso contrario la proprietà gli viene confiscata o mandata in fumo per mezzo di processi penali. La proprietà è e resta perciò proprietà dello Stato, non proprietà dell’io. Il fatto che lo Stato non strappi arbitrariamente al singolo ciò che questi ha avuto dallo Stato stesso è come dire che lo Stato non deruba se stesso. Chi è un io dello Stato, cioè un bravo cittadino o suddito, può vivere indisturbato in quanto è quell’io, non se stesso. Ciò viene affermato dal codice in questo modo: proprietà è ciò che io chiamo mio “grazie a Dio e al diritto”. Ma è mio, grazie a Dio e al diritto, solo finché lo Stato non ha niente in contrario.
Lo Stato, ecco quel che intendevo, non può volere che ognuno abbia una qualche proprietà in virtù di se stesso, oppure sia addirittura ricco o anche solo benestante: lo Stato non può riconoscermi, attribuirmi o concedermi niente come individuo. Lo Stato non può trovare dei rimedi contro il pauperismo, perché l’indigenza di chi non possiede nulla è indigenza soltanto mia. Chi non è altro se non ciò che il caso o altri, cioè lo Stato, fa di lui, non ha, a buon diritto, nient’altro che ciò che gli viene dato da altri. E l’altro, lo Stato, gli darà solo ciò che egli si è meritato con i suoi servizi. Non è lui a valorizzare se stesso, ma è lo Stato che lo valorizza.
Lo Stato non si cura di me e di ciò che mi appartiene, ma di sé e di ciò che gli appartiene: io valgo qualcosa soltanto come figlio suo, come “figlio della nazione”, ma come io non sono proprio niente per esso. Ciò che mi capita come individuo è, per l’intelletto dello Stato, qualcosa di casuale, sia il mio arricchirmi sia il mio impoverirmi. Ma se io e tutto ciò che mi appartiene sono qualcosa di casuale per lo Stato, questo dimostra che lo Stato non mi può comprendere: io oltrepasso i suoi concetti, ossia il suo intelletto è troppo limitato per comprendermi. Per questo lo Stato non può nemmeno fare niente per me.
Niente lo Stato deve temere più del mio valore e niente deve tentare di prevenire più accuratamente di ogni occasione che possa presentarmisi di valorizzare me stesso. Io sono il nemico mortale dello Stato e l’alternativa è sempre: lui o io. Perciò lo Stato fa moltissima attenzione non solo a impedirmi di valorizzare me stesso, ma anche a ostacolare tutto ciò che è mio. Nello Stato non c’è alcuna – proprietà, cioè proprietà del singolo, ma esiste solamente la proprietà dello Stato. Solo grazie allo Stato io ho ciò che ho, così come solo grazie allo Stato io sono ciò che sono. La mia proprietà privata è solo quella parte di proprietà sua che lo Stato stesso mi concede, privandone altri membri dello Stato: è proprietà dello Stato.
In contrasto con lo Stato, io sento sempre più chiaramente che mi rimane ancora un altro grande potere, il potere di disporre di me stesso, cioè di tutto ciò che è soltanto mio proprio e che è solo nella misura in cui è mio.
Che farò se le mie vie non saranno più le sue e i miei pensieri non saranno più i suoi? lo mi curerò solo di me, senza preoccuparmi dello Stato! I miei pensieri, che non hanno bisogno di sanzione, beneplacito o grazia alcuna, costituiscono la mia vera proprietà, una proprietà di cui posso far commercio. In quanto miei, infatti, essi sono mie creature e io posso scambiarli con altri pensieri: io li do via in cambio di altri, che diventano così la nuova proprietà che io mi sono acquistato.
Che cos’è dunque di mia proprietà? Nient’altro che ciò che è in mio potere! Quale proprietà sono autorizzato a possedere? Ogni proprietà che ho il potere di autorizzarmi a possedere. Io do a me stesso il diritto di proprietà, prendendomela, ossia conferendo a me stesso il potere del proprietario, i pieni poteri, il potere autorizzato.
Ciò che nessuno ha il potere di strapparmi, resta mia proprietà; sia dunque il potere a decidere le questioni di proprietà: io voglio aspettarmi tutto solo dalla mia potenza! Il potere estraneo, il potere che io lascio ad altri, mi rende schiavo; possa il mio proprio potere rendermi padrone di me! Io mi riprenderò il potere che avevo lasciato ad altri per ignoranza della forza del mio proprio potere! Io mi dirò che i confini della mia proprietà sono i confini del mio potere e rivendicherò come mia proprietà tutto ciò che mi sento abbastanza forte da poter conquistare; io farò mia proprietà di tutto ciò che io stesso saprò prendermi, dandomene a questo modo l’autorizzazione.
L’egoismo non pensa a sacrificare qualcosa, a rinunciare a qualcosa, ma decide semplicemente a questo modo: “Io devo avere ciò di cui ho bisogno e me lo procurerò!”.